Potevamo noi
che siamo ossa in bilico
tenute in tale stato
da soffice e pensosa carne
sì da poter mirare
profondo d’orizzonte
dove dritte vie si fondono
potevamo non pagare noi
onore tanto grande
senza onere pesante
noi che scaviamo grotte
e delle cavate pietre
rotte con fatica e ingegno
innalziamo torri snelle
cupole bastioni e forti
posti ad ornare colli
e indurre a invidia monti
noi vertice di follia al
mondo
abissi di pazienza e astuzia
di Damocle sottostiamo a
spada
la Terra dal profondo
ostinata ci ricorda il
compito
lo fa con tremendo rombo
con aleatoria scossa
a pura coincidenza unita
stiamo su questa crosta
in transito verso altre oasi
forse più permanenti
macerie salme profughi
ne sono suoi testimoni
sisma acquattato al buio
insidioso come serpente
tu non sei mandante
neanche sei tu sicario
ma salomonico esecutore
sapremmo inocularci antidoto
scampare al tuo fatale morso
eppure ci distraiamo
incauti ammassiamo fango
fingendoci che sia marmo
scesa che sia la polvere
alzatosi su di lei il silenzio
piante le dovute lacrime
rialziamo le nostre vertebre
drizziamole come colonne
se noi erigiamo templi
può essere che lo facciamo
per rispecchiarci in essi
ammirare luccichio d’eterno
filtrato da un divino lampo
altrimenti abiteremmo tane
di vesti non ci copriremmo
non avremmo soggiogato il
ferro
non avremmo indagato il
sangue
non dato nome ai campi
nemmeno c’interesserebbero
le angustie degli antenati
che pane mangeranno i posteri
se dal suolo veniamo scossi
è solo per ricordarci
d’essere
viventi quanto mai speciali.
(scritta nell'Aprile duemilanove)
Marco sclarandis
Diciamo che ci sto, a condizione che tu sia il primo ad essere sterminato e io rimanga a correre nudo e felice nei prati incontaminati.