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Lascia la trivella premi la
pedivella.
Da quanto tempo dura l’era
del petrolio?
Da poco più di un secolo e
mezzo.
Durante il quale questa
fetida ambrosia oleosa ci ha permesso la soddisfazione di desideri antichi come
le montagne e che immaginavamo solo Dei d’un Olimpo potessero soddisfare.
Distillato due volte.
Una prima volta nel roccioso
profondo geologico ed una seconda nei più grandi e mostruosi alambicchi che la
mente umana abbia mai concepito e costruito.
Mille miliardi di barili, centocinquantanove
chilometri cubi, centotrenta miliardi di tonnellate.
Pressochè il volume dei laghi
italiani messi insieme.Questa è la stima di quello che abbiamo estratto dalla
Terra durante tutto questo breve passato, brevissimo se confrontato alla storia
umana, mille volte almeno, più lunga e di quella del petrolio stesso, più di un
milione di volte più lunga ancora.
Agli occhi di un pianeta satellite come la Luna, un fuoco fatuo.
Fuoco fatuo è l’immagine
migliore per descrivere l’estrazione di questo inebriante rosòlio dai mari
italiani.E fuoco ancor più fatuo sarebbe quella d’ora in poi dal mare Adriatico.
Questa affermazione non si
fonda su congetture fantasiose o su notizie da articoli da scoop giornalistico.
Ci sono dei fatti e dei dati
che chiunque può trovare, sapendo cercarli, di varie fonti che provano che le
cose stiano in questi termini.
Si può incominciare da “Il paese degli elefanti”
-miti e realtà sulle riserve
italiane degli idrocarburi- di Luca Pardi, Lu::ce edizioni.
Un libretto agile che è come
il bandolo di una matassa di conoscenze intricate ma fondamentali.
Quindi nessun oscuro
complotto o arcane verità rivelate a pochi adepti.
Solo fatti, e non riguardano
solo il piccolo incantevole lago salato mediterraneo, qual è
l’Adriatico, ma tutto il
pianeta, che ci dicono come e quanto, il petrolio ci abbia ormai dato il meglio
che avrebbe potuto darci, sebbene noi siamo riusciti a distillarne anche molto
del peggio.
Due guerre mondiali tanto per
farne un esempio.
Ci sono ottime, eccellenti
ragioni per non trivellare l’Adriatico, indipendentemente da qualsiasi quantità
d’idrocarburi fossili possano esservi sepolte.Fortunatamente il carbone si
trova sepolto in altri luoghi.
Ma la principale, quella
sovrastante tutte, è che dobbiamo smettere immediatamente di bruciare
queste sostanze, se vogliamo
tenerci un clima a cui ci siamo abituati da millenni.
E’ un’impresa quasi
sovrumana, questa dismissione.
Perché da tre secoli, con il
carbone prima, il petrolio dopo e per finire con l’uranio e il plutonio,
ci siamo abituati a vivere
con un flusso d’energia e di risorse d’ogni genere, che ha qualcosa di
molto affine ad una
tossicodipendenza.
Qualsiasi cosa, che dia
insieme assuefazione e dipendenza, insieme a gravi danni alla salute, viene
considerata una droga tossica.
Il petrolio, è da considerarsi
una di queste cose, non c’è dubbio.Non è la sostanza maligna in sé stessa, ma
quello che ci ha portato a fare.Pure l’alcool produce in noi effetti simili, e
lo sappiamo da millenni.Ma il petrolio s’è rivelato una droga speciale, quasi
una quintessenza delle altre.
Ecco allora che uno dei mezzi
per cominciare la cura disintossicante, è sicuramente l’umile velocipede.Un
congegno leonardesco che ha dovuto attendere quasi mezzo millennio per venire
alla luce.
E’ il mezzo che tuttora ha la
massima efficienza nel trasportare uomini bestie e cose dovunque.
Come ogni mezzo, ha i suoi
limiti, ma considerati i vantaggi, è un capolavoro della natura umana.
La bicicletta amplifica le
nostre capacità, pur lasciandoci consapevoli del confine oltre il quale inizia
la dismisura, l’hybris, la follia che porta alla perdizione.
Un mondo in equilibrio su due
ruote e con l’ausilio d’un manubrio è come un sogno rinascimentale
realizzato, ma esente dai
suoi aspetti più foschi.
Poche cose sono appaganti,
romantiche, desiderabili, accessibili, come una lunga gita in bicicletta, anche
in un mondo che tuttora romba e sferraglia d’ordigni funzionanti con quella
ambrosia, cibo degli dei, ma fetida ed untuosa, pregna di nerissi incubi.
La costa adriatica ci
aspetta.
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Marco Sclarandis