Scuotiti gente d'Appennino
prima che lo faccia la tua terra
irrequieta imprevedibile a te simile
e proprio perciò bella
non puoi dormire beata nella tua dimora
devi sonnecchiare di felino sonno
fino a che con astuzia
non hai messo solai e mura nella gabbia
non ti ha punito la spietata faglia
avvertito solo che il castello
il bastione il campanile il portico
solo se come piramide tozza fatto
resiste alla sua saltuaria furia
altrimenti esige raffinato ingegno
pianti i sepolti e gli avviliti
riedifica la casa riapri la cucina
quel sugo da amatori maschi e femmine
deve inebriarci come prima.
Marco sclarandis
Thursday, August 25, 2016
Faglie appenniniche e foglie di fico edilizie
Riporto due articoli che spero allontanino dai soliti piagnistei che accompagnano queste evitabili catastrofi.
Ed avvicinino invece le possibili soluzioni preventive.
http://www.lastampa.it/2016/08/25/italia/cronache/friabili-e-vecchie-di-un-secolo-le-case-che-cedono-al-sisma-HTAb4PJKAxJTQgsYJGZD9I/pagina.html
Friabili e vecchie di un secolo: le case che cedono al sisma
Già spesi 180 miliardi per i disastri. Per un’Italia sicura ne basterebbero 100
Di Andrea Rossi
L’Italia che crolla spesso è costruita sulla roccia. E con la roccia. Quasi tutto l’Appennino rurale corrisponde a questo spaventoso identikit. E così è per Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, sventrati dal sisma dell’altra notte: edificati su affioramenti rocciosi, quando delle leggi antisismiche nessuno si occupava.
L’età delle costruzioni e i materiali utilizzati sono il marchio di questo pezzo d’Italia andato in frantumi. Secondo il censimento del patrimonio abitativo, realizzato dall’Istat nel 2011, il 14% degli edifici risale a prima del 1919, il 10% è antecedente la fine della seconda guerra mondiale, il 36% appartiene agli anni del boom (1946-1971), il 26% risale a dopo il 1982. Ad Accumoli no: il 60% delle 292 case è stato costruito prima del 1919. E ad Amatrice, su 1.301 fabbricati in piedi fino all’altra notte, 498 risalivano a prima della Grande Guerra e altri 156 a prima del 1945. Arquata del Tronto replica il canovaccio: il 42% di ciò che c’era (691 fabbricati) esiste da almeno un secolo.
Da queste parti il calcestruzzo armato è merce rara. L’80% delle case e degli edifici pubblici è realizzato in muratura (la media italiana è il 60%). Non sarebbe di per sé un problema se non fosse che qui muratura vuol dire calcare, oppure ciottoli, con appena un po’ di malta di calce. Il risultato? «Spesso le murature sono scarsamente collegate tra loro», spiega Andrea Manzone, ingegnere strutturalista. «La facciata è poco “legata” ai muri perimetrali e la struttura si comporta poco come una scatola: l’effetto è che le pareti si allontanano facendo cadere i solai e provocando il crollo completo dell’edificio».
«Tutto l’Appennino rurale è fatto così, da questo punto di vista il terremoto di ieri non ci rivela niente di nuovo», spiega Gian Michele Calvi, uno dei massimi esperti italiani in fatto di terremoti, docente all’Università di Pavia. L’Appennino è il cuore dell’Italia che trema: in media una catastrofe ogni cinque anni. Sulla direttrice Rieti-Ascoli c’è però qualcosa di più. Una storia che parla: non c’è Comune, in questa terra tra il Gran Sasso e i monti Sibillini che negli ultimi mille anni non abbia vissuto intensità macrosismiche inferiori al decimo grado della scala Mercalli, vale a dire scossa «completamente distruttiva», un gradino sotto «catastrofica» e «apocalittica».
Conviviamo con un patrimonio edilizio vecchio ma soprattutto maltenuto. Nel 2012 la Camera ha istituito una commissione d’indagine sulla sicurezza sismica. Della relazione finale non c’è traccia, ma nel corso delle audizioni sono emersi particolari preoccupanti: ad esempio 6 milioni di edifici su 27, in Italia, sono in cattivo stato di conservazione. In parte sono i più vecchi, ma una fetta consistente coinvolge il boom del dopoguerra, quando si passò da 35 a 80 milioni di vani abitativi. Un edificio su quattro risalente a quell’epoca è ammalorato, tanto che alcuni anni fa Aldo Loris Rossi, professore di Progettazione architettonica all’Università di Napoli, ha lanciato una proposta drastica: «Rottamare la spazzatura edilizia post-bellica, 40 milioni di vani, costruiti tra il 1945 e il 1975, senza qualità, interesse storico ed efficienza antisismica. Molti interventi sono stati eseguiti malamente, o hanno caricato strutture già esistenti. Questa crescita è avvenuta in maniera impropria, per questo dico che ogni fabbricato dovrebbe avere una carte d’identità». «È una battaglia che portiamo avanti da anni», racconta Bernardino Chiaia, ordinario di Scienza delle costruzioni al Politecnico di Torino. «Gli edifici andrebbero sottoposti a verifica sismica, peccato che la proposta abbia trovato i principali oppositori nelle associazioni dei proprietari di immobili. Temevano fosse una nuova tassa sulla casa».
Così, senza verifiche né censimenti, il patrimonio è andato in malora. E, insieme con le case del 1900, ad Accumoli è andata giù la caserma dei carabinieri e ad Amatrice l’ospedale è inagibile. Entrambi sono ben più recenti. «Purtroppo in queste zone nessuno investe perché si stanno spopolando», dice il professor Calvi. «Dunque non è sorprendente che crollino le case. La cosa che fa scalpore sono gli ospedali, le caserme».
Dopo il terremoto del Molise, nel 2002, che si portò via 27 bambini e una maestra, si decise che era troppo: la Protezione civile avviò la mappatura degli edifici strategici (ospedali, caserme, municipi) a rischio sismico. La ricognizione è sostanzialmente terminata, ma non si è andati oltre: servirebbero 10-15 miliardi, circa il 10% del totale stimato per la messa in sicurezza di tutto il patrimonio (pubblico e privato) a rischio sismico. E ce ne vorrebbe un’altra decina per mettere in sicurezza 24 mila scuole.
«È una questione di scelte», dice Calvi. «Spendere tre miliardi l’anno per i danni post sisma o investire la stessa cifra per la prevenzione?». Secondo l’Ance, l’associazione dei costruttori, dal 1968 a oggi sono stati spesi 180 miliardi (attualizzati) per i disastri causati dai terremoti. Ricostruire un chilometro quadrato costa tra 60 e 200 milioni. Con 100 miliardi si sarebbe rimessa in sesto tutta l’Italia.
Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.
A completamento.................
http://www.lastampa.it/2016/08/25/italia/cronache/dallantica-roma-la-maledizione-della-faglia-appenninica-3B9y1EUg1OQJ66UE0c3WJK/pagina.html
Dall’Antica Roma la maledizione della faglia appenninica
Agisce fra l’Umbria e la valle del Tevere fino a 20 km di profondità. Il tipico terremoto italiano: magnitudo media e danni enormi
Di Mario Tozzi
Le lance di Marte erano infisse nel suolo e addossate alla parete settentrionale della Regia, nel Foro Romano. Quando vibravano qualcosa di terribile era accaduto: nel 44 a.C. l’assassinio di Cesare, tutte le altre volte un terremoto da Nord, dalla regione compresa fra alto Lazio, Umbria e Marche, la stessa che continua sistematicamente a tremare da millenni. Non era un mistero e non è colpa della Terra: le catastrofi naturali non esistono, esistono solo la nostra ignoranza, l’assenza di memoria, il malaffare e la scarsa propensione alla prevenzione. Tutto il resto (ritardo nei soccorsi, fatalità, destino e dei), sa di scusa e l’abbiamo sentita talmente tante volte da provocare un senso di nausea, soprattutto nel momento in cui molte persone lottano per sopravvivere sotto le macerie. Proprio questo, però, è il momento per riflettere e per capire.
C’è una responsabile del terremoto di Accumoli, una responsabile che agisce insieme con altre sue simili in un’area molto vasta che va dal confine Umbria, Marche e Lazio fino alla valle del Tevere. È una faglia (come per tutti i terremoti), ma particolare (come tutte le faglie), frammentata in tanti segmenti allineati, ma non continui, che percorre il sottosuolo dell’Appennino centro-settentrionale fino a oltre 20 km di profondità. Un sistema di faglie che non accumulano energia in silenzio per poi scaricarla in «botte» tremende, ma rare. Al contrario, si carica di energia elastica come una molla e poi si libera con frequenza impressionante e, a livello geologico, quasi costante. Nel 1328 il terremoto durò tre mesi, nel gennaio del 1703 la grande scossa fu preceduta da numerose altre premonitrici (che qualcuno potrebbe oggi interpretare come coppie sismiche), nel 1831 il terremoto di Foligno durò oltre quattro mesi. La sequenza sismica della Val Nerina (1979) aveva raggiunto il IX grado della scala Mercalli, intensità raggiunta e superata più volte nella regione attorno, ad esempio nel 1997 con la coppia sismica di Colfiorito, paragonabile per energia liberata.
Cicerone (nel 63 a.C.) ne parla nelle «Catilinarie», Tacito (51 d.C.) ricorda che nelle zona «le case crollano per i frequenti terremoti»: nessuna anomalia, solo il normale «lavoro» del nostro pianeta che qui si era reso manifesto più che altrove. Anzi, questo è il tipico terremoto italiano: magnitudo media in contesti collinari rurali scarsamente popolati, con edifici costruiti spesso male, con materiali di risulta, senza progettazione antisismica moderna, le cui conseguenze sono danni devastanti. A questo seguiranno inevitabilmente la fase delle tendopoli, poi quella dei container (e per favore, evitateci la vergogna delle new town) e lustri per la ricostruzione. E, alla fine, la marginalizzazione di un territorio già lontano da tutto, pur essendo il centro geografico della penisola.
Siamo in una regione della crosta terrestre che, dopo aver visto il sollevamento di una catena montuosa (l’Appennino) dalle profondità marine a causa della spinta reciproca dei blocchi africano ed europeo, ora attraversa un periodo di tensioni, piuttosto che di compressioni. Qui la crosta non viene portata a piegarsi e ad accartocciarsi su se stessa, come quando si forma una montagna, anzi: viene «stirata», estesa fino alla formazione di spaccature profonde, le faglie.
L’Appennino si è innalzato fino a oltre 3000 metri, ma ora sta ricominciando lentamente a scendere di quota, assestandosi a livelli più bassi: grandi faglie distensive permettono questo aggiustamento, spostando di volta in volta intere «fette» della catena. Insieme ad aree in abbassamento ce ne sono molte in sollevamento e proprio da queste disomogeneità si creano quegli «strappi» (le faglie) che danno luogo ai terremoti. Non è un fenomeno solo di queste parti, è di tutto l’Appennino, di una nazione che è di montagna e ad alto rischio naturale come il Giappone, che però si illude di essere piatta e tranquilla come la Siberia: l’Irpinia (1980) e L’Aquila (2009), come Avezzano (1915) e Reggio Calabria (1908), fanno parte della stessa storia geologica.
Questo terremoto è decine di volte meno energetico di quello dell’Aquila, eppure i danni sembrano maggiori (forse non le vittime: molto più scarsa è la densità di popolazione). Perché? Non dipende solo dalla geologia del sottosuolo, che può aver amplificato localmente le onde sismiche, ma soprattutto da come si è costruito e da quanto si è dimenticato. Non è mai il terremoto che uccide, ma solo la casa costruita male. La regione è sismica da sempre, ma le progettazioni del patrimonio costruito sono, nel migliore dei casi, non più efficaci. Ci vorrebbe un adeguamento antisismico e soprattutto ci vorrebbero controlli continui almeno agli edifici pubblici, che debbono continuare a funzionare nell’emergenza: ma qui l’ospedale di Amatrice crolla e le caserme reggono a stento.
Bisognerebbe spendere in prevenzione quando non ci sono terremoti: si risparmierebbero non solo vite, ma anche denari (un euro in prevenzione ne vale 8-10 in emergenza). Bisognerebbe dedicare le pubbliche risorse a questo e non a infrastrutture inutili e nuove costruzioni di cui non c’è alcun bisogno. Questo dovrebbero fare amministratori consapevoli e attenti. Questo in Italia non fa quasi nessuno. E, quando arriva il terremoto, sembra sempre che fino al giorno prima non ce ne siano stati: mai come in questo caso sappiamo che non è vero.
Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.
Marco Sclarandis
Ed avvicinino invece le possibili soluzioni preventive.
http://www.lastampa.it/2016/08/25/italia/cronache/friabili-e-vecchie-di-un-secolo-le-case-che-cedono-al-sisma-HTAb4PJKAxJTQgsYJGZD9I/pagina.html
Friabili e vecchie di un secolo: le case che cedono al sisma
Già spesi 180 miliardi per i disastri. Per un’Italia sicura ne basterebbero 100
Di Andrea Rossi
L’Italia che crolla spesso è costruita sulla roccia. E con la roccia. Quasi tutto l’Appennino rurale corrisponde a questo spaventoso identikit. E così è per Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, sventrati dal sisma dell’altra notte: edificati su affioramenti rocciosi, quando delle leggi antisismiche nessuno si occupava.
L’età delle costruzioni e i materiali utilizzati sono il marchio di questo pezzo d’Italia andato in frantumi. Secondo il censimento del patrimonio abitativo, realizzato dall’Istat nel 2011, il 14% degli edifici risale a prima del 1919, il 10% è antecedente la fine della seconda guerra mondiale, il 36% appartiene agli anni del boom (1946-1971), il 26% risale a dopo il 1982. Ad Accumoli no: il 60% delle 292 case è stato costruito prima del 1919. E ad Amatrice, su 1.301 fabbricati in piedi fino all’altra notte, 498 risalivano a prima della Grande Guerra e altri 156 a prima del 1945. Arquata del Tronto replica il canovaccio: il 42% di ciò che c’era (691 fabbricati) esiste da almeno un secolo.
Da queste parti il calcestruzzo armato è merce rara. L’80% delle case e degli edifici pubblici è realizzato in muratura (la media italiana è il 60%). Non sarebbe di per sé un problema se non fosse che qui muratura vuol dire calcare, oppure ciottoli, con appena un po’ di malta di calce. Il risultato? «Spesso le murature sono scarsamente collegate tra loro», spiega Andrea Manzone, ingegnere strutturalista. «La facciata è poco “legata” ai muri perimetrali e la struttura si comporta poco come una scatola: l’effetto è che le pareti si allontanano facendo cadere i solai e provocando il crollo completo dell’edificio».
«Tutto l’Appennino rurale è fatto così, da questo punto di vista il terremoto di ieri non ci rivela niente di nuovo», spiega Gian Michele Calvi, uno dei massimi esperti italiani in fatto di terremoti, docente all’Università di Pavia. L’Appennino è il cuore dell’Italia che trema: in media una catastrofe ogni cinque anni. Sulla direttrice Rieti-Ascoli c’è però qualcosa di più. Una storia che parla: non c’è Comune, in questa terra tra il Gran Sasso e i monti Sibillini che negli ultimi mille anni non abbia vissuto intensità macrosismiche inferiori al decimo grado della scala Mercalli, vale a dire scossa «completamente distruttiva», un gradino sotto «catastrofica» e «apocalittica».
Conviviamo con un patrimonio edilizio vecchio ma soprattutto maltenuto. Nel 2012 la Camera ha istituito una commissione d’indagine sulla sicurezza sismica. Della relazione finale non c’è traccia, ma nel corso delle audizioni sono emersi particolari preoccupanti: ad esempio 6 milioni di edifici su 27, in Italia, sono in cattivo stato di conservazione. In parte sono i più vecchi, ma una fetta consistente coinvolge il boom del dopoguerra, quando si passò da 35 a 80 milioni di vani abitativi. Un edificio su quattro risalente a quell’epoca è ammalorato, tanto che alcuni anni fa Aldo Loris Rossi, professore di Progettazione architettonica all’Università di Napoli, ha lanciato una proposta drastica: «Rottamare la spazzatura edilizia post-bellica, 40 milioni di vani, costruiti tra il 1945 e il 1975, senza qualità, interesse storico ed efficienza antisismica. Molti interventi sono stati eseguiti malamente, o hanno caricato strutture già esistenti. Questa crescita è avvenuta in maniera impropria, per questo dico che ogni fabbricato dovrebbe avere una carte d’identità». «È una battaglia che portiamo avanti da anni», racconta Bernardino Chiaia, ordinario di Scienza delle costruzioni al Politecnico di Torino. «Gli edifici andrebbero sottoposti a verifica sismica, peccato che la proposta abbia trovato i principali oppositori nelle associazioni dei proprietari di immobili. Temevano fosse una nuova tassa sulla casa».
Così, senza verifiche né censimenti, il patrimonio è andato in malora. E, insieme con le case del 1900, ad Accumoli è andata giù la caserma dei carabinieri e ad Amatrice l’ospedale è inagibile. Entrambi sono ben più recenti. «Purtroppo in queste zone nessuno investe perché si stanno spopolando», dice il professor Calvi. «Dunque non è sorprendente che crollino le case. La cosa che fa scalpore sono gli ospedali, le caserme».
Dopo il terremoto del Molise, nel 2002, che si portò via 27 bambini e una maestra, si decise che era troppo: la Protezione civile avviò la mappatura degli edifici strategici (ospedali, caserme, municipi) a rischio sismico. La ricognizione è sostanzialmente terminata, ma non si è andati oltre: servirebbero 10-15 miliardi, circa il 10% del totale stimato per la messa in sicurezza di tutto il patrimonio (pubblico e privato) a rischio sismico. E ce ne vorrebbe un’altra decina per mettere in sicurezza 24 mila scuole.
«È una questione di scelte», dice Calvi. «Spendere tre miliardi l’anno per i danni post sisma o investire la stessa cifra per la prevenzione?». Secondo l’Ance, l’associazione dei costruttori, dal 1968 a oggi sono stati spesi 180 miliardi (attualizzati) per i disastri causati dai terremoti. Ricostruire un chilometro quadrato costa tra 60 e 200 milioni. Con 100 miliardi si sarebbe rimessa in sesto tutta l’Italia.
Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.
A completamento.................
http://www.lastampa.it/2016/08/25/italia/cronache/dallantica-roma-la-maledizione-della-faglia-appenninica-3B9y1EUg1OQJ66UE0c3WJK/pagina.html
Dall’Antica Roma la maledizione della faglia appenninica
Agisce fra l’Umbria e la valle del Tevere fino a 20 km di profondità. Il tipico terremoto italiano: magnitudo media e danni enormi
Di Mario Tozzi
Le lance di Marte erano infisse nel suolo e addossate alla parete settentrionale della Regia, nel Foro Romano. Quando vibravano qualcosa di terribile era accaduto: nel 44 a.C. l’assassinio di Cesare, tutte le altre volte un terremoto da Nord, dalla regione compresa fra alto Lazio, Umbria e Marche, la stessa che continua sistematicamente a tremare da millenni. Non era un mistero e non è colpa della Terra: le catastrofi naturali non esistono, esistono solo la nostra ignoranza, l’assenza di memoria, il malaffare e la scarsa propensione alla prevenzione. Tutto il resto (ritardo nei soccorsi, fatalità, destino e dei), sa di scusa e l’abbiamo sentita talmente tante volte da provocare un senso di nausea, soprattutto nel momento in cui molte persone lottano per sopravvivere sotto le macerie. Proprio questo, però, è il momento per riflettere e per capire.
C’è una responsabile del terremoto di Accumoli, una responsabile che agisce insieme con altre sue simili in un’area molto vasta che va dal confine Umbria, Marche e Lazio fino alla valle del Tevere. È una faglia (come per tutti i terremoti), ma particolare (come tutte le faglie), frammentata in tanti segmenti allineati, ma non continui, che percorre il sottosuolo dell’Appennino centro-settentrionale fino a oltre 20 km di profondità. Un sistema di faglie che non accumulano energia in silenzio per poi scaricarla in «botte» tremende, ma rare. Al contrario, si carica di energia elastica come una molla e poi si libera con frequenza impressionante e, a livello geologico, quasi costante. Nel 1328 il terremoto durò tre mesi, nel gennaio del 1703 la grande scossa fu preceduta da numerose altre premonitrici (che qualcuno potrebbe oggi interpretare come coppie sismiche), nel 1831 il terremoto di Foligno durò oltre quattro mesi. La sequenza sismica della Val Nerina (1979) aveva raggiunto il IX grado della scala Mercalli, intensità raggiunta e superata più volte nella regione attorno, ad esempio nel 1997 con la coppia sismica di Colfiorito, paragonabile per energia liberata.
Cicerone (nel 63 a.C.) ne parla nelle «Catilinarie», Tacito (51 d.C.) ricorda che nelle zona «le case crollano per i frequenti terremoti»: nessuna anomalia, solo il normale «lavoro» del nostro pianeta che qui si era reso manifesto più che altrove. Anzi, questo è il tipico terremoto italiano: magnitudo media in contesti collinari rurali scarsamente popolati, con edifici costruiti spesso male, con materiali di risulta, senza progettazione antisismica moderna, le cui conseguenze sono danni devastanti. A questo seguiranno inevitabilmente la fase delle tendopoli, poi quella dei container (e per favore, evitateci la vergogna delle new town) e lustri per la ricostruzione. E, alla fine, la marginalizzazione di un territorio già lontano da tutto, pur essendo il centro geografico della penisola.
Siamo in una regione della crosta terrestre che, dopo aver visto il sollevamento di una catena montuosa (l’Appennino) dalle profondità marine a causa della spinta reciproca dei blocchi africano ed europeo, ora attraversa un periodo di tensioni, piuttosto che di compressioni. Qui la crosta non viene portata a piegarsi e ad accartocciarsi su se stessa, come quando si forma una montagna, anzi: viene «stirata», estesa fino alla formazione di spaccature profonde, le faglie.
L’Appennino si è innalzato fino a oltre 3000 metri, ma ora sta ricominciando lentamente a scendere di quota, assestandosi a livelli più bassi: grandi faglie distensive permettono questo aggiustamento, spostando di volta in volta intere «fette» della catena. Insieme ad aree in abbassamento ce ne sono molte in sollevamento e proprio da queste disomogeneità si creano quegli «strappi» (le faglie) che danno luogo ai terremoti. Non è un fenomeno solo di queste parti, è di tutto l’Appennino, di una nazione che è di montagna e ad alto rischio naturale come il Giappone, che però si illude di essere piatta e tranquilla come la Siberia: l’Irpinia (1980) e L’Aquila (2009), come Avezzano (1915) e Reggio Calabria (1908), fanno parte della stessa storia geologica.
Questo terremoto è decine di volte meno energetico di quello dell’Aquila, eppure i danni sembrano maggiori (forse non le vittime: molto più scarsa è la densità di popolazione). Perché? Non dipende solo dalla geologia del sottosuolo, che può aver amplificato localmente le onde sismiche, ma soprattutto da come si è costruito e da quanto si è dimenticato. Non è mai il terremoto che uccide, ma solo la casa costruita male. La regione è sismica da sempre, ma le progettazioni del patrimonio costruito sono, nel migliore dei casi, non più efficaci. Ci vorrebbe un adeguamento antisismico e soprattutto ci vorrebbero controlli continui almeno agli edifici pubblici, che debbono continuare a funzionare nell’emergenza: ma qui l’ospedale di Amatrice crolla e le caserme reggono a stento.
Bisognerebbe spendere in prevenzione quando non ci sono terremoti: si risparmierebbero non solo vite, ma anche denari (un euro in prevenzione ne vale 8-10 in emergenza). Bisognerebbe dedicare le pubbliche risorse a questo e non a infrastrutture inutili e nuove costruzioni di cui non c’è alcun bisogno. Questo dovrebbero fare amministratori consapevoli e attenti. Questo in Italia non fa quasi nessuno. E, quando arriva il terremoto, sembra sempre che fino al giorno prima non ce ne siano stati: mai come in questo caso sappiamo che non è vero.
Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.
Marco Sclarandis
Wednesday, August 17, 2016
Disponiamo di fatati candelieri
Ce lo suggeriscono certi
fortunali
lo squillano alcune trombe d’aria
a dircelo poi chiaro e tondo
saranno tornadi ricorrenti
se davvero troppi fuochi e
incendi
di foreste rifiuti e
carburanti
abbiamo dappertutto acceso
disponiamo di fatati
candelieri
splendenti di più con sole e
al vento
esenti da sgocciolii e fuliggini
muscoli focosi dalla forza
gelida
animati da invisibili
scintille
menti fulminee cristalline
adoperiamo questi mezzi
meglio
chè le stagioni che ci
attendono
non saranno più armonico
quartetto
a cui il passato prossimo e
remoto
ci aveva con fiducia abituati.
Marco Sclarandis
Wednesday, August 10, 2016
Valvole termoioniche e razza atermodinamica.
Ringrazio Alberto per l'ispirazione*
Faccio un esempio.
Prendiamo una valvola termoionica degli anni venti ed uno smartphone contemporaneo.
In questo ci sono l'equivalente funzionale di miliardi di quelle altre.
Ma l'una ha bisogno di dieci miliardi di volte dell'altro l'energia per funzionare, pur senza dimenticare, anzi dovendo assolutamente ricordare la storia e le implicazioni che hanno portato dall'una all'altro.
Se non vogliamo precipitare in un'epoca dove non vi siano neanche le valvole termoioniche, ma se va bene i telegrafi turriti a bracci semoventi, dobbiamo rapidissimamente scegliere che cosa far crescere e che cosa portare ad immediata estinzione.
In sé e per sé non sarebbe così difficile se non fosse per quel particolare ordigno biochimico composto da alcune centinaia di miliardi elementi di calcolo interconnessi, che s'accontentano veramente di poco per funzionare.
Ma quel mezzo chilowattora d'energia che richiedono, senza dimenticare eccetera eccetera, produce sovente delle azioni che sono retroattivamente catastrofiche.
Non c'é bisogno d'aspettare un'era geologica di quelle arcaiche, per convincersene.
Anzi una decina di miliardi di quelle centinaia di miliardi, chiamiamoli pure neuroni a questo punto, internettivamente connessi, ci hanno fatto diventare una era biogeologica di fatto.
Potente ed inesorabile come quelle arcaiche, fulminea ed imprevedibile come quella contemporanea.
Ma alcuni di quegli ordigni nella fattispecie ben remunerati, che manovrano altri ordigni capaci d'influenzare miliardi di cervelli umani, questo il nome comune dei biochemiordigni, con quelle finestre incantatorie chiamate un tempo televisori, stanno facendo di tutto. Per mantenere, portare, indurre, ed obbligare anche, le moltitudini di umani che ancora s'accorgono di avere un biochemiordigno funzionante, alla più beata e tragica incoscienza.
Forse le razze umane esistono davvero, anche se non sono quello che i cosidetti razzisti credono che siano.
Forse ce ne sono almeno due.
Una che é ancora capace di rimanere affascinato dalle rudimentali capacità delle valvole termoioniche.
E nondimeno dal misterioso quartetto delle leggi della termodinamica.
Ed un'altra che vuole continuare a vivere strizzando l'olio dalle pietre.
Oltre che bruciare certe pietre per evitare di consumare un poco d'olio di gomito e di ginocchia.
Cose che stanno diventando molto più assurdo che succhiare sangue dalle rape.
(Dai commenti del post precedente : Disneyleden o Antropocene?) .*
Alberto, spero che sia chiaro una volta per tutte.
Per me la decrescita non è nè una filosofia o una ideologia.
E' solo un fatto che avviene in modo universale quando un altro fatto ha ormai raggiunto e superato un qualche limite intrinseco.
Che si tratti dello spezzarsi di una fune sotto carico, o della potenza d'un impero, per me non fa una sostanziale differenza.
Naturalmente, è molto più facile predire lo schianto d'una corda,
anche se bagnandola si può aumentarne di poco la resistenza, che
prevedere la fine di un impero.
Semplicemente, si fa per dire, mi sembra che sia inutile spiegare ai "disoccupati che senza responsabilità hanno subito la decrescita sulla loro pelle" quanto la decrescita sia in certe situazioni ineluttabile e che per lavorare di nuovo é necessario fare altre cose, che siano diverse da quelle che ormai anno raggiunto il massimo, l'apice, il culmine, l'apogeo o comunque lo si voglia chiamare.Inutile vista l'opera di stordimento incessante del baraccone mediatico dei fedeli della crescita indeterminata.
Sarebbe possibile per venti miliardi di esseri umani vivere su questa Terra godendo, per modo di dire, di un flusso d'energia e di materia e d'informazione che per ora é a disposizione di meno d'un decimo di tale popolazione?
Certo che sì, ma per quanto ne sappiamo, sarebbe un incendio fatuo.
Se poi é quello che desideriamo, va bene lo stesso.
Anzi, mi pare che in fondo questo desiderio sia molto più intenso e diffuso di quello che vorrebbe farci condurre una vita morigerata,lunga e tranquilla anche se un poco noiosa.
Appunto, siamo in un momento in cui ci stiamo istigando vicendevolmente a procurarci lo sport cruiser, magari elettrico, per portare l'E-Bike elettrica ai piedi della montagna dove faremo l'escursione illusoriamente compatibile con la biosfera.
E siccome lo sport cruiser già di per sè pesa come cento E-bike,
anche se li muoviamo con l'E-FV (Elettricità fotovoltaica) é evidente che avere l'uovo oggi, la frittata domani, e lagallina dopodomani, senza mai pagare il conto al pollaiolo, non é possibile.
Decrescere, decresceremo, ed anche incresciosamente, se in massa, sia proletaria che elitaria, ci rifiutiamo di fare due conti sul retro d'una busta per vedere se quadrano con i nostri innumerevoli desideri, volubili capricci,insane velleità, e le leggi fisiche per ora conosciute.
Marco Sclarandis
Faccio un esempio.
Prendiamo una valvola termoionica degli anni venti ed uno smartphone contemporaneo.
In questo ci sono l'equivalente funzionale di miliardi di quelle altre.
Ma l'una ha bisogno di dieci miliardi di volte dell'altro l'energia per funzionare, pur senza dimenticare, anzi dovendo assolutamente ricordare la storia e le implicazioni che hanno portato dall'una all'altro.
Se non vogliamo precipitare in un'epoca dove non vi siano neanche le valvole termoioniche, ma se va bene i telegrafi turriti a bracci semoventi, dobbiamo rapidissimamente scegliere che cosa far crescere e che cosa portare ad immediata estinzione.
In sé e per sé non sarebbe così difficile se non fosse per quel particolare ordigno biochimico composto da alcune centinaia di miliardi elementi di calcolo interconnessi, che s'accontentano veramente di poco per funzionare.
Ma quel mezzo chilowattora d'energia che richiedono, senza dimenticare eccetera eccetera, produce sovente delle azioni che sono retroattivamente catastrofiche.
Non c'é bisogno d'aspettare un'era geologica di quelle arcaiche, per convincersene.
Anzi una decina di miliardi di quelle centinaia di miliardi, chiamiamoli pure neuroni a questo punto, internettivamente connessi, ci hanno fatto diventare una era biogeologica di fatto.
Potente ed inesorabile come quelle arcaiche, fulminea ed imprevedibile come quella contemporanea.
Ma alcuni di quegli ordigni nella fattispecie ben remunerati, che manovrano altri ordigni capaci d'influenzare miliardi di cervelli umani, questo il nome comune dei biochemiordigni, con quelle finestre incantatorie chiamate un tempo televisori, stanno facendo di tutto. Per mantenere, portare, indurre, ed obbligare anche, le moltitudini di umani che ancora s'accorgono di avere un biochemiordigno funzionante, alla più beata e tragica incoscienza.
Forse le razze umane esistono davvero, anche se non sono quello che i cosidetti razzisti credono che siano.
Forse ce ne sono almeno due.
Una che é ancora capace di rimanere affascinato dalle rudimentali capacità delle valvole termoioniche.
E nondimeno dal misterioso quartetto delle leggi della termodinamica.
Ed un'altra che vuole continuare a vivere strizzando l'olio dalle pietre.
Oltre che bruciare certe pietre per evitare di consumare un poco d'olio di gomito e di ginocchia.
Cose che stanno diventando molto più assurdo che succhiare sangue dalle rape.
(Dai commenti del post precedente : Disneyleden o Antropocene?) .*
Alberto, spero che sia chiaro una volta per tutte.
Per me la decrescita non è nè una filosofia o una ideologia.
E' solo un fatto che avviene in modo universale quando un altro fatto ha ormai raggiunto e superato un qualche limite intrinseco.
Che si tratti dello spezzarsi di una fune sotto carico, o della potenza d'un impero, per me non fa una sostanziale differenza.
Naturalmente, è molto più facile predire lo schianto d'una corda,
anche se bagnandola si può aumentarne di poco la resistenza, che
prevedere la fine di un impero.
Semplicemente, si fa per dire, mi sembra che sia inutile spiegare ai "disoccupati che senza responsabilità hanno subito la decrescita sulla loro pelle" quanto la decrescita sia in certe situazioni ineluttabile e che per lavorare di nuovo é necessario fare altre cose, che siano diverse da quelle che ormai anno raggiunto il massimo, l'apice, il culmine, l'apogeo o comunque lo si voglia chiamare.Inutile vista l'opera di stordimento incessante del baraccone mediatico dei fedeli della crescita indeterminata.
Sarebbe possibile per venti miliardi di esseri umani vivere su questa Terra godendo, per modo di dire, di un flusso d'energia e di materia e d'informazione che per ora é a disposizione di meno d'un decimo di tale popolazione?
Certo che sì, ma per quanto ne sappiamo, sarebbe un incendio fatuo.
Se poi é quello che desideriamo, va bene lo stesso.
Anzi, mi pare che in fondo questo desiderio sia molto più intenso e diffuso di quello che vorrebbe farci condurre una vita morigerata,lunga e tranquilla anche se un poco noiosa.
Appunto, siamo in un momento in cui ci stiamo istigando vicendevolmente a procurarci lo sport cruiser, magari elettrico, per portare l'E-Bike elettrica ai piedi della montagna dove faremo l'escursione illusoriamente compatibile con la biosfera.
E siccome lo sport cruiser già di per sè pesa come cento E-bike,
anche se li muoviamo con l'E-FV (Elettricità fotovoltaica) é evidente che avere l'uovo oggi, la frittata domani, e lagallina dopodomani, senza mai pagare il conto al pollaiolo, non é possibile.
Decrescere, decresceremo, ed anche incresciosamente, se in massa, sia proletaria che elitaria, ci rifiutiamo di fare due conti sul retro d'una busta per vedere se quadrano con i nostri innumerevoli desideri, volubili capricci,insane velleità, e le leggi fisiche per ora conosciute.
Marco Sclarandis
Monday, August 8, 2016
Il tallone del catastrofista.
Chi fu il primo catastrofista?
Non fu quello che disse:
"Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene edel male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti".?
Ma quei due primi sciagurati non resistettero alla tentazione di scoprire che cosa ci sarebbe stato mai di così letale
in quell'albero, che forse aveva un aspetto anche abbastanza ordinario.
Forse, se ne avesse avuto uno più strano avrebbe potuto destare dei sospetti, ma al contrario, la stranezza avrebbe potuto anche aumentarne l'interesse a cibarsene.
Non bisogna dimenticare comunque che fu un altro essere vivente a provocare la catastrofe.
Che, pur nella sua astuzia, forse non previde che alla fine sarebbe finito con la testa schiacciata da una discendente di quei due sciagurati e di quell'inimmaginabile ed impersctrutabile Giardiniere.
Adesso, però, non abbiamo a che fare non con miti, favole e leggende, ma con una realtà molto prosaica.
E quindi, recitare la parte del catastrofista non è un compito da assumersi alla leggera.
La maggior parte vivente di quella genia primigenia, tutti noi, per intenderci, coltiva da una parte un'attrazione irresistibile per la catastrofe e dall'altra cerca d'eradicare il terrore che questa produce quando
ci viene addosso.
Una delle catastrofi incombenti, fondata su dei fatti decisamente certi, ma proprio per questo volutamente taciuto da alcuni ed allegramente ignorati da moltissimi altri, é il dirupo energetico da penuria di petrolio.
Non che di petrolio ne manchi sottoterra, ma appunto, non si trova nei laghi prealpini, dove basterebbe una condotta per farlo scendere come un fiume di latte e miele.
E nemmeno sappiamo come strizzarlo da una poltiglia di "solvente universale" e sesto elemento, con efficiente eleganza.
Sessant'anni fa, chi mise in guardia sulla futura possibile catastrofe DPDP (da penuria di petrolio) non venne preso troppo sul serio.Come nemmeno i suoi seguaci, anche adesso, che sappiamo che di questa fetida ambrosia oleosa ce n'è solo per chi vuole procurarsi i tormenti d'un Sisifo.
Ma, ormai la situazione al riguardo é tanto grave quanto tragicomica.
Dobbiamo estrarre quanto più petrolio possibile per attrezzarci quando verrà il tempo in cui estrarlo sarà utile come trapanare buchi nell'acqua.
Allora, che cosa dovrebbe fare il buono e pio catastrofista, devoto alla sua causa, che é quella di dire ai coevi del pericolo sospeso come una spada sulle loro teste?
Io penso che dovrebbe continuare a descrivere l'incombente sciagura, ma allo stesso tempo mostrare la via per evitarla.
E stare lontano dalla schadenfreude* che come, soddisfazione, più che magra è proprio anoressica.
Avendo sempre presente che uno stolido ed ottuso macigno in arrivo, quatto quatto, dal profondo buio cosmico, sistemerebbe le cose con salomonica imparzialità.
Quindi, altro che quello d'Achille, il tallone del catastrofista è proprio una pericolosa fragilità psicofisica.
Estesa dalla pianta dei pedi alla cima della chioma.
Catastrofista avvisato, quasi fortunato.
schadenfreude*, godimento per la altrui sventura.(O più brevementecompiacimento malevolo).
Marco Sclarandis
Non fu quello che disse:
"Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene edel male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti".?
Ma quei due primi sciagurati non resistettero alla tentazione di scoprire che cosa ci sarebbe stato mai di così letale
in quell'albero, che forse aveva un aspetto anche abbastanza ordinario.
Forse, se ne avesse avuto uno più strano avrebbe potuto destare dei sospetti, ma al contrario, la stranezza avrebbe potuto anche aumentarne l'interesse a cibarsene.
Non bisogna dimenticare comunque che fu un altro essere vivente a provocare la catastrofe.
Che, pur nella sua astuzia, forse non previde che alla fine sarebbe finito con la testa schiacciata da una discendente di quei due sciagurati e di quell'inimmaginabile ed impersctrutabile Giardiniere.
Adesso, però, non abbiamo a che fare non con miti, favole e leggende, ma con una realtà molto prosaica.
E quindi, recitare la parte del catastrofista non è un compito da assumersi alla leggera.
La maggior parte vivente di quella genia primigenia, tutti noi, per intenderci, coltiva da una parte un'attrazione irresistibile per la catastrofe e dall'altra cerca d'eradicare il terrore che questa produce quando
ci viene addosso.
Una delle catastrofi incombenti, fondata su dei fatti decisamente certi, ma proprio per questo volutamente taciuto da alcuni ed allegramente ignorati da moltissimi altri, é il dirupo energetico da penuria di petrolio.
Non che di petrolio ne manchi sottoterra, ma appunto, non si trova nei laghi prealpini, dove basterebbe una condotta per farlo scendere come un fiume di latte e miele.
E nemmeno sappiamo come strizzarlo da una poltiglia di "solvente universale" e sesto elemento, con efficiente eleganza.
Sessant'anni fa, chi mise in guardia sulla futura possibile catastrofe DPDP (da penuria di petrolio) non venne preso troppo sul serio.Come nemmeno i suoi seguaci, anche adesso, che sappiamo che di questa fetida ambrosia oleosa ce n'è solo per chi vuole procurarsi i tormenti d'un Sisifo.
Ma, ormai la situazione al riguardo é tanto grave quanto tragicomica.
Dobbiamo estrarre quanto più petrolio possibile per attrezzarci quando verrà il tempo in cui estrarlo sarà utile come trapanare buchi nell'acqua.
Allora, che cosa dovrebbe fare il buono e pio catastrofista, devoto alla sua causa, che é quella di dire ai coevi del pericolo sospeso come una spada sulle loro teste?
Io penso che dovrebbe continuare a descrivere l'incombente sciagura, ma allo stesso tempo mostrare la via per evitarla.
E stare lontano dalla schadenfreude* che come, soddisfazione, più che magra è proprio anoressica.
Avendo sempre presente che uno stolido ed ottuso macigno in arrivo, quatto quatto, dal profondo buio cosmico, sistemerebbe le cose con salomonica imparzialità.
Quindi, altro che quello d'Achille, il tallone del catastrofista è proprio una pericolosa fragilità psicofisica.
Estesa dalla pianta dei pedi alla cima della chioma.
Catastrofista avvisato, quasi fortunato.
schadenfreude*, godimento per la altrui sventura.(O più brevementecompiacimento malevolo).
Marco Sclarandis
Friday, August 5, 2016
Non tutti i grulli arrivano per nuocere
Da:
https://ugobardi.blogspot.it/2016/08/alcune-riflessioni-sul-crepuscolo.html?showComment=1470384906154#c6012902037827742667
Anonimo 5 agosto 2016 08.59 :
"Ancora con questa panzana della "fine del petrolio" e conseguente quasi immediata "fine-di-mondo"?
Ancora non si accetta che fra gas naturale, rinnovabili e altre fonti, del petrolio ***come fonte energetica***(altra cosa sono, in parte, i suoi sottoprodotti come le materie plastiche) possiamo fare tranquillamente a meno?
Ancora non si accetta che comunque ci sono ancora enormi giacimenti intonsi (quelli artici ed antartici, ad esempio) che quando servirà/converrà ai "padroni delle trivelle" verranno sfruttati???
Vogliamo parlare di cosa rischia davvero di portare al crollo della civiltà? Sovrappopolazione, inquinamento e cambiamenti climatici caotici, non certo fuffa come la "fine del petrolio"...."
Figurati se non arrivava il solito grullo a rassicurarci che la fine del petrolio è solo una panzana.
Anzi fuffa che assona meglio con truffa.
"Minchioni,non avete ancora capito che i padroni delle trivelle non vedono l'ora di perforate chilometri di ghiacci e di rocce sottomarine per succhiare la prossima fonte di cuccagna?"
E sopratutto nel fresco delle tormente boreali e nella notturna e semestrale calma di quei luoghi? aggiungo io.
Così ci arringa dal suo eccelso pulpito, il grullo.
Anonimo 5 agosto 2016 08.59, hai letto anche solo questo post di cui ti sei appasssionato con furia di commentare?
L'hai capito?
E se l'hai letto e capito, com'é che dici che bastano gas naturale (fonti) rinnovabili ed altre fonti (non meglio descritte) per fare a meno del petrolio, almeno per quanto riguarda l'energia.
Come se fosse uno scherzo rinunciare in breve tempo all'uso ed abuso delle materie plastiche.
Tra l'altro, è meglio non dimenticarsi del bitume, o asfalto che lo si voglia chiamare altrimenti.
Sottoprodotto del petrolio con il quale possiamo viaggiare su strade comode e non polverose o fangose a seconda del meteo.
Qui in questo blog si parla da anni di sovrapopolazione (con una sola p per evitare che diventi davvero catastrofica) inquinamento, cambiamenti climatici caotici, esponenziali ed anche insidiosamente
imprevisti, oltre che di risorse in esaurimento o in via di abbandono per semplice impossibilità d'estrazione economicamente e fisicamente vantaggiosa.
Anonimo 5 agosto 2016 08.59, forse non te ne sei ancora accordo, ma un certo tipo di mondo è già finito da un pezzo, ed è solo a causa di grulli di specie diversa dalla tua, ma non di genere differente,
che stiamo entrando nel mondo che farà strage di molte stupide illusioni.
Per concludere, prova ad immaginare chi sono veramente i padroni delle trivelle.
Anonimi, scanzonati, ignari che per ogni bottiglietta di PET (sigla del polietilentereftalato) buttiamo via una tazzina di petrolio.E se anche ne recuperiamo un ditale con il riciclo, sempre danno evitabile abbiamo fatto.
Una moltitudine di padroncini idioti, che vogliono solo farneticare di diritti senza mai pensare che senza assolvimento a dei doveri è vana ogni protesta.
Ringrazio questo anonimo per l'ispirazione.
Non tutti i grulli arrivano per nuocere in fin dei conti.
Marco Sclarandis
Tuesday, August 2, 2016
Disneyleden o Antropocene?
C'é un tizio che commenta su uno dei blog di Ugo Bardi che é fissato con l'idea dei settanta milioni.
Non si tratta di una qualche valuta, ma di popolazione.
Quella che idealmente dovrebbe popolare la Terra per assicurarsi una lunghissima vita, vissuta in pace ed armonia con tutti i restanti ospiti.Che siano virus del vaiolo o basset-hound.
Non che sia il solo il tizio, ad essere fissato su questa idea, ma mi sembra che quando un pensiero del genere
diventa una fede ed anche incrollabile, c'é da sperare che tali fedeli non diventino una setta con ambizioni di governo e dotazione di potere.
Per altro, c'é una folla immensa che più che credere, ama illudersi e sperare che se gli umani raddoppiassero sulla Terra, non una ma anche due o tre volte, non ci sarebbe di che preoccuparsi.
Senza neanche considerare quello che poi farebbero una volta stipati tutti quanti sulla medesima crosta, geofisica ovviamente.
E' molto difficile indurre al ragionamento tali individui, e siccome il ragionamento è un atto individuale, nonostante esista una forma d'intelligenza collettiva, il tempo impiegato per ragionare insieme a queste persone é un investimento ad altissimo rischio.
Inadatto quindi a chi preferisce il quieto vivere sopra ogni altra cosa.
C'é anche da dire, a difesa di quei tizi e di quella folla che ragionare sull'ingombro della nostra specie su questa Terra non è facile, è costoso e sovente ci si sbaglia con il rischio d'essere sbeffeggiati, calunniati
e perseguitati pure.
Ma ragionare è necessario, ora più che mai.Almeno quanto lo é respirare,bere, mangiare ed evacuare.
Io sono fissato con il Giardino dell'Eden, sapendo che è una bella leggenda e che è una mia fissazione.
Ma gli esperimenti fatti fino ad ora dall' umanità per riportare la Terra alle condizioni di quel giardino primigenio, tutti falliti più o meno miseramente, non mi hanno convinto che non valga più la pena ritentare.
Non tanto per fare di quella leggenda mitica una prosaica realtà, ma per dissipare il dubbio che la vita umana possibile sulla Terra sia solo quella dominata dalla morte tua vita mia.
Anche se non ho più nessun dubbio che chi non vuole proprio adattarsi, sceglie la morte, ma almeno sceglie.
Se ragionassi soltanto, e forse sarebbe un ragionamento apparentemente ben fatto, non m'importerebbe nulla di chiedermi se stiamo finalmente entrando nell'era del Disneyleden o invece uscendo di scena dalla Biosfera attraverso l'Antropocene.
Ma appunto, ancora mi appassiona sperimentare azioni da Giardiniere Primigenio.
Marco Sclarandis.
Non si tratta di una qualche valuta, ma di popolazione.
Quella che idealmente dovrebbe popolare la Terra per assicurarsi una lunghissima vita, vissuta in pace ed armonia con tutti i restanti ospiti.Che siano virus del vaiolo o basset-hound.
Non che sia il solo il tizio, ad essere fissato su questa idea, ma mi sembra che quando un pensiero del genere
diventa una fede ed anche incrollabile, c'é da sperare che tali fedeli non diventino una setta con ambizioni di governo e dotazione di potere.
Per altro, c'é una folla immensa che più che credere, ama illudersi e sperare che se gli umani raddoppiassero sulla Terra, non una ma anche due o tre volte, non ci sarebbe di che preoccuparsi.
Senza neanche considerare quello che poi farebbero una volta stipati tutti quanti sulla medesima crosta, geofisica ovviamente.
E' molto difficile indurre al ragionamento tali individui, e siccome il ragionamento è un atto individuale, nonostante esista una forma d'intelligenza collettiva, il tempo impiegato per ragionare insieme a queste persone é un investimento ad altissimo rischio.
Inadatto quindi a chi preferisce il quieto vivere sopra ogni altra cosa.
C'é anche da dire, a difesa di quei tizi e di quella folla che ragionare sull'ingombro della nostra specie su questa Terra non è facile, è costoso e sovente ci si sbaglia con il rischio d'essere sbeffeggiati, calunniati
e perseguitati pure.
Ma ragionare è necessario, ora più che mai.Almeno quanto lo é respirare,bere, mangiare ed evacuare.
Io sono fissato con il Giardino dell'Eden, sapendo che è una bella leggenda e che è una mia fissazione.
Ma gli esperimenti fatti fino ad ora dall' umanità per riportare la Terra alle condizioni di quel giardino primigenio, tutti falliti più o meno miseramente, non mi hanno convinto che non valga più la pena ritentare.
Non tanto per fare di quella leggenda mitica una prosaica realtà, ma per dissipare il dubbio che la vita umana possibile sulla Terra sia solo quella dominata dalla morte tua vita mia.
Anche se non ho più nessun dubbio che chi non vuole proprio adattarsi, sceglie la morte, ma almeno sceglie.
Se ragionassi soltanto, e forse sarebbe un ragionamento apparentemente ben fatto, non m'importerebbe nulla di chiedermi se stiamo finalmente entrando nell'era del Disneyleden o invece uscendo di scena dalla Biosfera attraverso l'Antropocene.
Ma appunto, ancora mi appassiona sperimentare azioni da Giardiniere Primigenio.
Marco Sclarandis.
Subscribe to:
Posts (Atom)